“Antonella Zazzera. In dialogo con la storia dell’arte
” di Federico Sardella, 2009

L’artista guarda avanti, è naturalmente proiettato oltre e i risultati dei suoi sforzi sono spesso fuori tempo, in anticipo rispetto ai tempi: all’avanguardia. Questo anticipo, lo stare consapevolmente avanti il resto della truppa, non è altro che il frutto di un saper guardare anche al passato, sino a giungere alle proprie origini, sapendo di avere le spalle coperte e una memoria da cavalcare.

“L’arte è ricerca di valori armonici dello spazio, della traccia e della luce e di tutto ciò che deriva dalla loro combinazione. La storia dell’arte studia queste combinazioni nelle varie epoche e ne trae le giuste conclusioni in relazione alla contemporaneità dei singoli artisti. La collocazione della Zazzera si pone nella ricerca di questi tre elementi fondamentali privilegiando la luce e la traccia ed assumendo il valore dello spazio da esperienze vicine alla sua contemporaneità di artista. (…) Per comprendere le sculture della Zazzera bisogna parlare d’altro, necessita tornare indietro, lontano, molto lontano…”1.

Il lontano a cui sopra si accenna è quello più remoto che ci possiamo immaginare: un lontano prima della storia (l’incipit della maggior parte dei manuali di storia dell’arte), dove il lavoro di Antonella Zazzera affonda consapevolmente le proprie radici riferendosi alle prime tracce lasciate d’istinto dall’uomo sulle pareti delle caverne. Nelle pitture presenti nelle grotte di Altamira, per esempio, la tecnica utilizzata è sorprendentemente complessa e varia, si intuiscono pennellate larghe e sfumate, graffi e segni sottili e veloci in grado di rendere con immediatezza il senso del movimento. La fascinazione di Antonella per questa primordiale forma d’espressione e d’arte risale agli anni dell’Accademia. In una delle sue prime occasioni espositive, nel 1997 a Gàlgata, in provincia di Perugia, non a caso, sceglie di intervenire salle mura perimetrali di un edificio di cui non rimangono che alcune parti, andando a lavorare nello spazio tra una pietra e l’altra. Tale scelta la porta a saturare queste fessure con materiali quali carbone, stucco e gesso e ad ottenere delle zone sulle quali intervenire praticando graffi e solcature che anni dopo ha poi riconosciuto nelle opere di Alberto Giacometti, Emilio Scanavino o Hans Hartung, già prestando una particolare attenzione agli elementi che poi andranno a caratterizzare il percorso compiuto sino ad ora e a distinguere il suo lavoro che tutto deve al Segnotraccia, termine da lei scelto per definire l’espressione massima dell’individuo artista e il luogo ideale ove avviene la fusione dell’io con la materia artistica.

Ancor precedente all’interesse per i rilievi rupestri è quello per la pittura di Caravaggio. “Riproducevo a matita i suoi quadri. Mi ha sempre affascinato il contrasto tra buio e luce presente nelle sue tele, la sua capacità di strumentalizzare la luce e di impiegarla per determinare l’evento fondamentale all’interno dell’opera…”2, racconta in una recente intervista. Con Caravaggio la luce si fa protagonista indiscussa, così come pure l’assenza di luce, e grazie a lui potrà essere colta sotto forma di istante luminoso, istante che, una volta passato, determina un cambiamento. Tale cambiamento, l’attimo della variazione, sarà poi il fattore attorno al quale si concentra molta parte della pittura dei secoli successivi, per arrivare all’impressionismo, al puntinismo, al divisionismo, poi il futurismo sino all’oggi (per farla breve).

Nel continuo dialogo con la storia dell’arte che il muoversi di Antonella Zazzera prevede, alcune opere hanno particolarmente determinato il suo procedere. È questo il caso della “Maternità” di Gaetano Previati (1890-91) dove le forme si dissolvono nel segno filamentoso: la madre abbraccia il suo bambino, circondata da un coro di angeli in preghiera dipinti con lunghi e regolari tratti di colore ad olio che conferisce al quadro luminosità, morbidezza e profondità, caratteristiche che ritroviamo posando lo sguardo sulle superfici degli “Armonici” della Zazzera, le cui tramature, ottenute dalla sovrapposizione di fili di rame di differenti colori e spessore, si sentono debitrici anche nei confronti della “Lampada ad arco” di Giacomo Balla (1909). Se nel quadro di Previati la luce fissata è quella naturale, nella celebre opera di Balla si racconta di una luce artificiale (in contrapposizione a quella del sole o del chiaro di luna) resa mediante la disposizione di segni/frammenti di colori puri come generati da un nucleo incandescente. Anche nei successivi studi sulla luce di Balla, in particolar modo nelle “Compenetrazioni iridescenti” (1912-14), i triangoli colorati che occupano la superficie sono composizioni astratte e simultaneamente tessiture visive il cui corpo è, come quello degli “Armonici”, fatto da linee, colori e luce, ricco di energia e di tensione, quasi in movimento.

“Ho imparato da Giacomo Balla che non esistono le immagini senza tenere conto della luce che le compenetra e le fa palpitare insieme con tutto ciò che le circonda. Luce e movimento sono l’essenza della realtà, tutto il resto è illusione, apparenza…”3 scrive Piero Dorazio che poco più che ventenne ebbe la fortuna di conoscere il Maestro e di frequentare la sua casa. Nelle tele di Dorazio si avverte l’inguaribile desiderio di governare la luce e i colori attraverso la struttura, ottenuta con una tecnica impeccabile e grazie alla sedimentazione del colore. Gli “Armonici” di Antonella sono strutture complesse, anch’esse impeccabili, dove centinaia, forse migliaia, di metri di filo di rame trovano collocazione esatta e vanno a formare un corpo il cui spessore non è dato da intreccio, cuciture o saldature ma da una lenta, misteriosa e coerente accumulazione di materiale che si aggrega in un rituale processo di sovrapposizione, di ispessimento e di sedimentazione nello spazio e nel tempo, non molto lontano, dopo tutto, da quello dettato dall’impiego del colore ad olio.

Medardo Rosso asserisce che “la luce è la vera essenza della nostra esistenza, un’opera d’arte che non ha a che fare con la luce non ha ragione di esistere. Senza luce essa è priva di unità e di spaziosità, è ridotta ad essere insignificante, di nessun valore, erroneamente concepita, basata necessariamente sulla materia”4. La materia è dunque uno strumento, un conduttore (nel caso della nostra artista più che mai), una sostanza da plasmare e ammorbidire sino allo sfinimento, al servizio dell’idea e dell’azione. Il rame è naturalmente investito da quel fenomeno detto cangianza, per cui alcuni minerali variano di colore al mutare della luce, e grazie all’impiego di questo, nelle opere di Antonella la luce pare provenire da dentro a generare bagliori inspiegabili per poi irradiarsi e correre via come stesse scivolando lesta su una superficie di cera.

Le opere in rame di Antonella Zazzera sono forme di luce costituite da infiniti attimi luminosi che mai si ripetono. Nascono dall’esigenza di dare tridimensionalità e corpo ai Segnotraccia presenti nelle sue fotografie: forme pure e spontanee dai cromatismi impercettibili, che solo attraverso la sensibilità della pellicola fotografica sono catturate e svelate almeno un po’. E qui torniamo di nuovo all’idea di attimo luminoso, di rivelazione e di istante unico, fisso nelle fotografie ma in divenire nelle sculture, perché gli “Armonici” variano in continuazione od offrono visioni ininterrotte di sé, proponendosi anche come duttili immagini del tempo, di quello individuale dell’artista e di quello dell’opera, del suo compiersi e del suo esistere.

“L’opera d’arte è l’artista” è la chiosa finale di molti dei componimenti poetici o scritti teorici di Antonella, e come se non bastasse, per chiarire al meglio il suo pensiero, conferma che “ciò che si fa è ciò che è. L’atto di creazione dell’artista è l’esistere”5; ed ancora che “l’Io e la ricerca armonica sulla materia sono un’unica cosa, che si concretizza attraverso l’Unicità e la Liricità”6. Troppo romanticismo per l’oggi? Troppa poesia in un momento storico come il nostro, dove il distacco dell’artista dall’opera ha raggiunto i suoi massimi livelli? Forse dovremmo riconsiderare il concetto di arte (e di opera d’arte) e rapportarci a queste creature come a qualcosa di diverso da ciò che siamo soliti vedere. Le azioni che la Zazzera compie per costruire le sue sculture di luce hanno un che di arcano. La posizione che lei assume è quella del demiurgo lavoratore, quasi un artigiano, che plasma la materia, la trasforma (pur non avendola creata), le dà ordine e la vivifica con la propria volontà, inventando, come solo pochissimi altri delle ultime generazioni hanno saputo fare, un linguaggio nuovo: uno stile.

Chi, tra gli artisti che particolarmente amiamo, ha saputo fare lo stesso, creando uno stile, un vero e proprio metodo, e dal 1959 la cosa è sotto gli occhi di tutti, è Enrico Castellani. Nelle sue superfici monocrome a rilievo lo spazio si coniuga con il tempo e il rigore strutturale è rotto dalla luce che sfiora sporgenze e infossature producendo un ininterrotto sensuale riverbero. Ma non è solo questo governare e giocare la luce che mi permette l’accostamento con la Zazzera. Più ancora li lega la intima concezione di un lavorare all’opera come ad una esperienza più che ad una soluzione definitiva, “perché l’opera d’arte non è confinata in una circolarità chiusa ma vive di situazioni aperte, è un vettore, si adatta ad ogni luogo ed è sempre contemporanea”7.

Da queste righe dal testo di Castellani che aprono il presente catalogo, passo inevitabilmente ad affrontare la questione del rapporto tra lo spazio e le opere di Antonella. Negli “Armonici” non c’è fondo e non c’è figura ma solo un blocco dall’apparente monocromia infuocata, agitato da una serie di fughe di linee colorate che si adagiano l’una nell’altra determinando un sistema di direzioni, di luci in movimento e di spazi. Vengono realizzati in rapporto specifico con il luogo che andrà a contenerli e in esso trovano sistemazione a terra o a parete, se all’interno, sino a poter essere coinvolti in un abbraccio con un albero (o altro elemento naturale, che so, un filo d’erba…) o a galleggiare su uno specchio d’acqua gareggiando con questo per il primato della rifrazione, se collocati en plein air.

Proprio come i feltri di Robert Morris, ma senza la stessa fascinosa svogliatezza, le sculture di Antonella Zazzera, tese e a tratti splendidamente impettite, interagiscono armoniosamente con il loro contenitore sopra tutto grazie alla semplicità delle loro forme. Sono presenze che caratterizzano e strutturano lo spazio senza però modificarlo, che si adagiano con discrezione, pure affermando clamorosamente la loro viva presenza: quasi un’apparizione. A tal proposito un artista distante nei risultati dalla Zazzera come è Nicola Carrino, anch’egli come Morris inscrivibile nel campo del minimalismo più assoluto, puntualizza che lo spazio per cui si progetta una scultura da “luogo indeterminato diventa campo ordinato e determinante, luogo dell’accadere e del procedere. La misura dello spazio determina il numero degli elementi plastici possibili a qualificarlo e dinamizzarlo. Dalla rilevazione alla rivelazione”8. Diversamente, spiega Carlo Lorenzetti, dal cui lavoro certe forme della Zazzera hanno assorbito la leggerezza e la capacità di trattare il metallo come fosse leggero quanto una piuma, che “la scultura, non collocandosi passivamente nello spazio delle cose, aspira a creare una spazialità, come luogo del suo essere immagine aperta ad accogliere la luce e l’atmosfera nella continuità dinamica di rientranze e di aggetti che attivano la sua stessa immobilità.”9

E, ancora una volta mi sono servito delle parole di altri artisti per raccontare le credenze di Antonella Zazzera, per terminare con Piero Dorazio che ci ricorda, in un libro titolato “Quello che ho imparato” che “gli artisti imparano dagli altri artisti, non c’è tanto da studiare, basta frequentare altri artisti e tenere gli occhi e le orecchie all’erta”10…

1 Mauro Salvi, Arte e ricerca, 2001, inedito.
2 Federico Sardella, Armoniche tensioni. Intervista con Antonella Zazzera, catalogo della mostra, Extra Moenia, Todi (PG), 2008.
3 Piero Dorazio, Quello che ho imparato, Maurizio Corraini Editore, Mantova 1994.
4 Medardo Rosso, L’Impressionismo in scultura, una spiegazione, in “The Daily Mail”, London (GB), 17 ottobre 1907.
5 Antonella Zazzera, Stile, 2000, inedito.
6 Antonella Zazzera, Ho sempre vissuto l’Arte nella sua purezza…, 2005-06, inedito.
7 Enrico Castellani, per Antonella Zazzera, catalogo della mostra, Antonella Cattani Contemporary Art, Bolzano, 2009.
8 Nicola Carrino, Prima e dopo il progetto. Il tempo dell’essere, catalogo della mostra, Framart Studio, Napoli e Milano, 1993.
9 Carlo Lorenzetti, in “Quaderni di scultura contemporanea”, n. 3, Edizioni della Cometa, Roma 2000.
10 Piero Dorazio, op. cit.

 

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L’artista guarda avanti, è naturalmente proiettato oltre e i risultati dei suoi sforzi sono spesso fuori tempo, in anticipo rispetto ai tempi: all’avanguardia. Questo anticipo, lo stare consapevolmente avanti il resto della truppa, non è altro che il frutto di un saper guardare anche al passato, sino a giungere alle proprie origini, sapendo di avere le spalle coperte e una memoria da cavalcare.

“L’arte è ricerca di valori armonici dello spazio, della traccia e della luce e di tutto ciò che deriva dalla loro combinazione. La storia dell’arte studia queste combinazioni nelle varie epoche e ne trae le giuste conclusioni in relazione alla contemporaneità dei singoli artisti. La collocazione della Zazzera si pone nella ricerca di questi tre elementi fondamentali privilegiando la luce e la traccia ed assumendo il valore dello spazio da esperienze vicine alla sua contemporaneità di artista. (…) Per comprendere le sculture della Zazzera bisogna parlare d’altro, necessita tornare indietro, lontano, molto lontano…”1.

Il lontano a cui sopra si accenna è quello più remoto che ci possiamo immaginare: un lontano prima della storia (l’incipit della maggior parte dei manuali di storia dell’arte), dove il lavoro di Antonella Zazzera affonda consapevolmente le proprie radici riferendosi alle prime tracce lasciate d’istinto dall’uomo sulle pareti delle caverne. Nelle pitture presenti nelle grotte di Altamira, per esempio, la tecnica utilizzata è sorprendentemente complessa e varia, si intuiscono pennellate larghe e sfumate, graffi e segni sottili e veloci in grado di rendere con immediatezza il senso del movimento. La fascinazione di Antonella per questa primordiale forma d’espressione e d’arte risale agli anni dell’Accademia. In una delle sue prime occasioni espositive, nel 1997 a Gàlgata, in provincia di Perugia, non a caso, sceglie di intervenire salle mura perimetrali di un edificio di cui non rimangono che alcune parti, andando a lavorare nello spazio tra una pietra e l’altra. Tale scelta la porta a saturare queste fessure con materiali quali carbone, stucco e gesso e ad ottenere delle zone sulle quali intervenire praticando graffi e solcature che anni dopo ha poi riconosciuto nelle opere di Alberto Giacometti, Emilio Scanavino o Hans Hartung, già prestando una particolare attenzione agli elementi che poi andranno a caratterizzare il percorso compiuto sino ad ora e a distinguere il suo lavoro che tutto deve al Segnotraccia, termine da lei scelto per definire l’espressione massima dell’individuo artista e il luogo ideale ove avviene la fusione dell’io con la materia artistica.

Ancor precedente all’interesse per i rilievi rupestri è quello per la pittura di Caravaggio. “Riproducevo a matita i suoi quadri. Mi ha sempre affascinato il contrasto tra buio e luce presente nelle sue tele, la sua capacità di strumentalizzare la luce e di impiegarla per determinare l’evento fondamentale all’interno dell’opera…”2, racconta in una recente intervista. Con Caravaggio la luce si fa protagonista indiscussa, così come pure l’assenza di luce, e grazie a lui potrà essere colta sotto forma di istante luminoso, istante che, una volta passato, determina un cambiamento. Tale cambiamento, l’attimo della variazione, sarà poi il fattore attorno al quale si concentra molta parte della pittura dei secoli successivi, per arrivare all’impressionismo, al puntinismo, al divisionismo, poi il futurismo sino all’oggi (per farla breve).

Nel continuo dialogo con la storia dell’arte che il muoversi di Antonella Zazzera prevede, alcune opere hanno particolarmente determinato il suo procedere. È questo il caso della “Maternità” di Gaetano Previati (1890-91) dove le forme si dissolvono nel segno filamentoso: la madre abbraccia il suo bambino, circondata da un coro di angeli in preghiera dipinti con lunghi e regolari tratti di colore ad olio che conferisce al quadro luminosità, morbidezza e profondità, caratteristiche che ritroviamo posando lo sguardo sulle superfici degli “Armonici” della Zazzera, le cui tramature, ottenute dalla sovrapposizione di fili di rame di differenti colori e spessore, si sentono debitrici anche nei confronti della “Lampada ad arco” di Giacomo Balla (1909). Se nel quadro di Previati la luce fissata è quella naturale, nella celebre opera di Balla si racconta di una luce artificiale (in contrapposizione a quella del sole o del chiaro di luna) resa mediante la disposizione di segni/frammenti di colori puri come generati da un nucleo incandescente. Anche nei successivi studi sulla luce di Balla, in particolar modo nelle “Compenetrazioni iridescenti” (1912-14), i triangoli colorati che occupano la superficie sono composizioni astratte e simultaneamente tessiture visive il cui corpo è, come quello degli “Armonici”, fatto da linee, colori e luce, ricco di energia e di tensione, quasi in movimento.

“Ho imparato da Giacomo Balla che non esistono le immagini senza tenere conto della luce che le compenetra e le fa palpitare insieme con tutto ciò che le circonda. Luce e movimento sono l’essenza della realtà, tutto il resto è illusione, apparenza…”3 scrive Piero Dorazio che poco più che ventenne ebbe la fortuna di conoscere il Maestro e di frequentare la sua casa. Nelle tele di Dorazio si avverte l’inguaribile desiderio di governare la luce e i colori attraverso la struttura, ottenuta con una tecnica impeccabile e grazie alla sedimentazione del colore. Gli “Armonici” di Antonella sono strutture complesse, anch’esse impeccabili, dove centinaia, forse migliaia, di metri di filo di rame trovano collocazione esatta e vanno a formare un corpo il cui spessore non è dato da intreccio, cuciture o saldature ma da una lenta, misteriosa e coerente accumulazione di materiale che si aggrega in un rituale processo di sovrapposizione, di ispessimento e di sedimentazione nello spazio e nel tempo, non molto lontano, dopo tutto, da quello dettato dall’impiego del colore ad olio.

Medardo Rosso asserisce che “la luce è la vera essenza della nostra esistenza, un’opera d’arte che non ha a che fare con la luce non ha ragione di esistere. Senza luce essa è priva di unità e di spaziosità, è ridotta ad essere insignificante, di nessun valore, erroneamente concepita, basata necessariamente sulla materia”4. La materia è dunque uno strumento, un conduttore (nel caso della nostra artista più che mai), una sostanza da plasmare e ammorbidire sino allo sfinimento, al servizio dell’idea e dell’azione. Il rame è naturalmente investito da quel fenomeno detto cangianza, per cui alcuni minerali variano di colore al mutare della luce, e grazie all’impiego di questo, nelle opere di Antonella la luce pare provenire da dentro a generare bagliori inspiegabili per poi irradiarsi e correre via come stesse scivolando lesta su una superficie di cera.

Le opere in rame di Antonella Zazzera sono forme di luce costituite da infiniti attimi luminosi che mai si ripetono. Nascono dall’esigenza di dare tridimensionalità e corpo ai Segnotraccia presenti nelle sue fotografie: forme pure e spontanee dai cromatismi impercettibili, che solo attraverso la sensibilità della pellicola fotografica sono catturate e svelate almeno un po’. E qui torniamo di nuovo all’idea di attimo luminoso, di rivelazione e di istante unico, fisso nelle fotografie ma in divenire nelle sculture, perché gli “Armonici” variano in continuazione od offrono visioni ininterrotte di sé, proponendosi anche come duttili immagini del tempo, di quello individuale dell’artista e di quello dell’opera, del suo compiersi e del suo esistere.

“L’opera d’arte è l’artista” è la chiosa finale di molti dei componimenti poetici o scritti teorici di Antonella, e come se non bastasse, per chiarire al meglio il suo pensiero, conferma che “ciò che si fa è ciò che è. L’atto di creazione dell’artista è l’esistere”5; ed ancora che “l’Io e la ricerca armonica sulla materia sono un’unica cosa, che si concretizza attraverso l’Unicità e la Liricità”6. Troppo romanticismo per l’oggi? Troppa poesia in un momento storico come il nostro, dove il distacco dell’artista dall’opera ha raggiunto i suoi massimi livelli? Forse dovremmo riconsiderare il concetto di arte (e di opera d’arte) e rapportarci a queste creature come a qualcosa di diverso da ciò che siamo soliti vedere. Le azioni che la Zazzera compie per costruire le sue sculture di luce hanno un che di arcano. La posizione che lei assume è quella del demiurgo lavoratore, quasi un artigiano, che plasma la materia, la trasforma (pur non avendola creata), le dà ordine e la vivifica con la propria volontà, inventando, come solo pochissimi altri delle ultime generazioni hanno saputo fare, un linguaggio nuovo: uno stile.

Chi, tra gli artisti che particolarmente amiamo, ha saputo fare lo stesso, creando uno stile, un vero e proprio metodo, e dal 1959 la cosa è sotto gli occhi di tutti, è Enrico Castellani. Nelle sue superfici monocrome a rilievo lo spazio si coniuga con il tempo e il rigore strutturale è rotto dalla luce che sfiora sporgenze e infossature producendo un ininterrotto sensuale riverbero. Ma non è solo questo governare e giocare la luce che mi permette l’accostamento con la Zazzera. Più ancora li lega la intima concezione di un lavorare all’opera come ad una esperienza più che ad una soluzione definitiva, “perché l’opera d’arte non è confinata in una circolarità chiusa ma vive di situazioni aperte, è un vettore, si adatta ad ogni luogo ed è sempre contemporanea”7.

Da queste righe dal testo di Castellani che aprono il presente catalogo, passo inevitabilmente ad affrontare la questione del rapporto tra lo spazio e le opere di Antonella. Negli “Armonici” non c’è fondo e non c’è figura ma solo un blocco dall’apparente monocromia infuocata, agitato da una serie di fughe di linee colorate che si adagiano l’una nell’altra determinando un sistema di direzioni, di luci in movimento e di spazi. Vengono realizzati in rapporto specifico con il luogo che andrà a contenerli e in esso trovano sistemazione a terra o a parete, se all’interno, sino a poter essere coinvolti in un abbraccio con un albero (o altro elemento naturale, che so, un filo d’erba…) o a galleggiare su uno specchio d’acqua gareggiando con questo per il primato della rifrazione, se collocati en plein air.

Proprio come i feltri di Robert Morris, ma senza la stessa fascinosa svogliatezza, le sculture di Antonella Zazzera, tese e a tratti splendidamente impettite, interagiscono armoniosamente con il loro contenitore sopra tutto grazie alla semplicità delle loro forme. Sono presenze che caratterizzano e strutturano lo spazio senza però modificarlo, che si adagiano con discrezione, pure affermando clamorosamente la loro viva presenza: quasi un’apparizione. A tal proposito un artista distante nei risultati dalla Zazzera come è Nicola Carrino, anch’egli come Morris inscrivibile nel campo del minimalismo più assoluto, puntualizza che lo spazio per cui si progetta una scultura da “luogo indeterminato diventa campo ordinato e determinante, luogo dell’accadere e del procedere. La misura dello spazio determina il numero degli elementi plastici possibili a qualificarlo e dinamizzarlo. Dalla rilevazione alla rivelazione”8. Diversamente, spiega Carlo Lorenzetti, dal cui lavoro certe forme della Zazzera hanno assorbito la leggerezza e la capacità di trattare il metallo come fosse leggero quanto una piuma, che “la scultura, non collocandosi passivamente nello spazio delle cose, aspira a creare una spazialità, come luogo del suo essere immagine aperta ad accogliere la luce e l’atmosfera nella continuità dinamica di rientranze e di aggetti che attivano la sua stessa immobilità.”9

E, ancora una volta mi sono servito delle parole di altri artisti per raccontare le credenze di Antonella Zazzera, per terminare con Piero Dorazio che ci ricorda, in un libro titolato “Quello che ho imparato” che “gli artisti imparano dagli altri artisti, non c’è tanto da studiare, basta frequentare altri artisti e tenere gli occhi e le orecchie all’erta”10…

1 Mauro Salvi, Arte e ricerca, 2001, inedito.
2 Federico Sardella, Armoniche tensioni. Intervista con Antonella Zazzera, catalogo della mostra, Extra Moenia, Todi (PG), 2008.
3 Piero Dorazio, Quello che ho imparato, Maurizio Corraini Editore, Mantova 1994.
4 Medardo Rosso, L’Impressionismo in scultura, una spiegazione, in “The Daily Mail”, London (GB), 17 ottobre 1907.
5 Antonella Zazzera, Stile, 2000, inedito.
6 Antonella Zazzera, Ho sempre vissuto l’Arte nella sua purezza…, 2005-06, inedito.
7 Enrico Castellani, per Antonella Zazzera, catalogo della mostra, Antonella Cattani Contemporary Art, Bolzano, 2009.
8 Nicola Carrino, Prima e dopo il progetto. Il tempo dell’essere, catalogo della mostra, Framart Studio, Napoli e Milano, 1993.
9 Carlo Lorenzetti, in “Quaderni di scultura contemporanea”, n. 3, Edizioni della Cometa, Roma 2000.
10 Piero Dorazio, op. cit.

 

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