“Un possibile nomadismo della scultura” di Marco Meneguzzo, 2015

Qualche anno fa, verso febbraio, a San Pietroburgo sul mar Baltico mi è capitato di vedere le piccole onde che sarebbero dovute “morire” sulla spiaggia, perfettamente ferme a poca distanza dall’asciutto, cristallizzate nel loro andamento letteralmente “ondivago”: erano ghiacciate per il freddo. Ora, nel pensare al lavoro di Antonella Zazzera, mi ritorna alla mente quell’episodio, per analogia con la natura intrinseca delle sue opere, del suo processo mentale, e dell’effetto che queste sempre causano nello spettatore. Di fatto, prima di ogni altra cosa, si rinnova lo stupore per qualcosa che ha l’apparenza del fluido, e che invece è solido: le sue sculture, gli altorilievi in filo di rame o in altri materiali sono intrecciati, sono “tessuti” in modo da suggerire una piega momentanea, lo scorrere di un’onda, un soffio di vento, mentre sono lì, solidi e immoti per una quantità di tempo che sembra eterna, se pensiamo alla robustezza e alla durata della materia in cui son fatti. Un semplice problema di percezione, un inganno visivo subito svelato e quindi inefficace?
Non proprio. Intanto, i fenomeni percettivi semplici, come questo, si rinnovano sempre, anche se li conosciamo già. Se, cioè, già conosciamo il lavoro di Zazzera e ci aspettiamo di vederne uno tra poco, nonostante questa preparazione lo stupore si rinnoverà ancora una volta, solo parzialmente mitigato dall’aspettativa e dalla conoscenza, perché la risposta fisiologica è comunque più intensa e profonda della nostra conoscenza – che in questo caso ci dice che il rame è solido e che si tratta di un inganno percettivo – e soprattutto è più veloce. Così, questo primo approccio non si consuma dopo la prima visione, ma si ripete ad ogni sguardo, prima che si inneschi il meccanismo della conoscenza o meglio della “ri-cognizione”, vale a dire del richiamo alla memoria dell’opera di Zazzera e dei suoi elementi costitutivi. In questo, la sua opera va a toccare un livello profondo di percezione, che non ha niente a che fare – a questo stadio – con gli aspetti mimetici dell’arte. Non si tratta, cioè, dello stesso atteggiamento che si prova di fronte a una “marina” ben dipinta (tanto per tornare all’aneddoto iniziale… ) perché in questa, nel momento del guardare, sappiamo già che si tratta di finzione – vediamo la superficie, la pittura, la cornice, e sappiamo di essere in una stanza e non di fronte al mare – e la nostra mente attiva altri livelli interpretativi, mentre nel caso dell’opera di Zazzera vediamo semplicemente una forma e una materia che non coincidono, con una distanza infinitesima tra la percezione dell’una e dell’altra che stabilisce il cortocircuito percettivo. Si potrebbe dire che questa è una delle peculiarità della scultura, e in effetti Zazzera è scultrice, anche e soprattutto nei rilievi da parete (così come Castellani è invece pittore, pur usando la tridimensionalità…), perché alla fine si parla di forma e materia, con quell’aderenza alla realtà che è maggiore di quella della pittura, se non altro per il suo essere nello spazio reale e non nello spazio “protetto” della tela e dei suoi confini, magari ulteriormente separati dal mondo da un telaio e da una cornice.
Ma l’opera di Zazzera non si esaurisce nell’artificio percettivo, per quanto sapiente. Passato quel momento ineludibile di stupore, comincia il cammino della cultura, di ciò che sappiamo e di ciò che si aggiunge grazie a quell’opera, e subito ci si trova di fronte a un secondo cortocircuito ideale, che è quello di una “scultura tessuta”. Inevitabile tirare in ballo il gender, in questo caso, e quel senso di tranquilla pazienza così ben simboleggiato dalla figura classica di Penelope: in Zazzera questo non manca, come non manca e non è mancato in molte artiste che hanno fatto del filo – questo è di rame o di alluminio, ma è (quasi) lo stesso – il proprio strumento privilegiato da Maria Lai a Ghada Amer, ma non sarà inutile ricordare altre applicazioni, più vicine al tessuto metallico che alla proverbiale pazienza (e rassegnazione, e intimismo…) femminile: la medievale maglia di ferro la facevano i fabbri, ed è prettamente maschile, anzi, aggressiva e bellicosa, mentre le piastre metalliche degli abiti di Courréges preannunciano l’abito di maglia metallica di Armani , e parlano i primi di un futuro da Barbarella, il secondo di una pelle sinuosa e pericolosa e fredda, come quella di un serpente, che ricopre il corpo femminile. La questione si complica, dunque, e anche quest’opera di Zazzera sfugge a quella categorizzazione troppo rigida, troppo esplicita per arrivare infine a considerazioni prettamente formali, che in questo caso – e genericamente quando si parla d’arte – significano tutt’altro che “non sostanziali” come avviene invece nel linguaggio comune.
Del paradosso percettivo di una forma morbida e apparentemente momentanea, cristallizzata invece nella solidità del metallo abbiamo già parlato, ora si tratta però di parlarne a livello cosciente, anzi, consapevole: il livello della conoscenza e della comparazione. Comparazione perché, ad esempio, nel caso di molte delle opere di Zazzera – ricordiamo come esemplare il vasto ciclo delle “Armoniche” – le categorie della scultura potrebbero leggermente mutare, da quelle tradizionali cui siamo abituati. Il senso di “forma chiusa” e “forma aperta” diventano nell’analisi della sua opera “forma arrotolata” e “forma distesa”, come se da un momento all’altro potessero cambiare di senso, e trasformarsi nel loro opposto: nel suo caso, infatti, non è assolutamente pensabile che le opere non possano essere manipolate e mutate, anche se non avverrà mai. In altre parole, i suoi lavori suggeriscono la possibilità di un mutamento di forma, che quello che era chiuso venga “srotolato”, cioè diventi “aperto”, e la forma muti con una mobilità impensabile per la scultura, e poco importa che un eventuale fortunato possessore la appenda al muro per sempre, così come accade che chi ha un bel tappeto in casa non sia un nomade abituato ad arrotolarlo ogni giorno per spostarsi di qualche miglio altrove. Resta la possibilità che questo avvenga, e tanto basta all’arte e allo svelamento del processo mentale, o dell’intuizione, o della pulsione che vi sta dietro e che ora, grazie a quella forma combinata con quella materia – in fondo, nella scultura, si tratta sempre di questo… – ci viene posto davanti. Una specie di nomadismo possibile, vagheggiato persino con un poco di nostalgia che non si sa da dove venga, ma reso solido e sicuro dall’ineluttabile e irrinunciabile (per noi) appartenenza alla tradizione dell’arte occidentale.

 

PDF

 

Qualche anno fa, verso febbraio, a San Pietroburgo sul mar Baltico mi è capitato di vedere le piccole onde che sarebbero dovute “morire” sulla spiaggia, perfettamente ferme a poca distanza dall’asciutto, cristallizzate nel loro andamento letteralmente “ondivago”: erano ghiacciate per il freddo. Ora, nel pensare al lavoro di Antonella Zazzera, mi ritorna alla mente quell’episodio, per analogia con la natura intrinseca delle sue opere, del suo processo mentale, e dell’effetto che queste sempre causano nello spettatore. Di fatto, prima di ogni altra cosa, si rinnova lo stupore per qualcosa che ha l’apparenza del fluido, e che invece è solido: le sue sculture, gli altorilievi in filo di rame o in altri materiali sono intrecciati, sono “tessuti” in modo da suggerire una piega momentanea, lo scorrere di un’onda, un soffio di vento, mentre sono lì, solidi e immoti per una quantità di tempo che sembra eterna, se pensiamo alla robustezza e alla durata della materia in cui son fatti. Un semplice problema di percezione, un inganno visivo subito svelato e quindi inefficace?
Non proprio. Intanto, i fenomeni percettivi semplici, come questo, si rinnovano sempre, anche se li conosciamo già. Se, cioè, già conosciamo il lavoro di Zazzera e ci aspettiamo di vederne uno tra poco, nonostante questa preparazione lo stupore si rinnoverà ancora una volta, solo parzialmente mitigato dall’aspettativa e dalla conoscenza, perché la risposta fisiologica è comunque più intensa e profonda della nostra conoscenza – che in questo caso ci dice che il rame è solido e che si tratta di un inganno percettivo – e soprattutto è più veloce. Così, questo primo approccio non si consuma dopo la prima visione, ma si ripete ad ogni sguardo, prima che si inneschi il meccanismo della conoscenza o meglio della “ri-cognizione”, vale a dire del richiamo alla memoria dell’opera di Zazzera e dei suoi elementi costitutivi. In questo, la sua opera va a toccare un livello profondo di percezione, che non ha niente a che fare – a questo stadio – con gli aspetti mimetici dell’arte. Non si tratta, cioè, dello stesso atteggiamento che si prova di fronte a una “marina” ben dipinta (tanto per tornare all’aneddoto iniziale… ) perché in questa, nel momento del guardare, sappiamo già che si tratta di finzione – vediamo la superficie, la pittura, la cornice, e sappiamo di essere in una stanza e non di fronte al mare – e la nostra mente attiva altri livelli interpretativi, mentre nel caso dell’opera di Zazzera vediamo semplicemente una forma e una materia che non coincidono, con una distanza infinitesima tra la percezione dell’una e dell’altra che stabilisce il cortocircuito percettivo. Si potrebbe dire che questa è una delle peculiarità della scultura, e in effetti Zazzera è scultrice, anche e soprattutto nei rilievi da parete (così come Castellani è invece pittore, pur usando la tridimensionalità…), perché alla fine si parla di forma e materia, con quell’aderenza alla realtà che è maggiore di quella della pittura, se non altro per il suo essere nello spazio reale e non nello spazio “protetto” della tela e dei suoi confini, magari ulteriormente separati dal mondo da un telaio e da una cornice.
Ma l’opera di Zazzera non si esaurisce nell’artificio percettivo, per quanto sapiente. Passato quel momento ineludibile di stupore, comincia il cammino della cultura, di ciò che sappiamo e di ciò che si aggiunge grazie a quell’opera, e subito ci si trova di fronte a un secondo cortocircuito ideale, che è quello di una “scultura tessuta”. Inevitabile tirare in ballo il gender, in questo caso, e quel senso di tranquilla pazienza così ben simboleggiato dalla figura classica di Penelope: in Zazzera questo non manca, come non manca e non è mancato in molte artiste che hanno fatto del filo – questo è di rame o di alluminio, ma è (quasi) lo stesso – il proprio strumento privilegiato da Maria Lai a Ghada Amer, ma non sarà inutile ricordare altre applicazioni, più vicine al tessuto metallico che alla proverbiale pazienza (e rassegnazione, e intimismo…) femminile: la medievale maglia di ferro la facevano i fabbri, ed è prettamente maschile, anzi, aggressiva e bellicosa, mentre le piastre metalliche degli abiti di Courréges preannunciano l’abito di maglia metallica di Armani , e parlano i primi di un futuro da Barbarella, il secondo di una pelle sinuosa e pericolosa e fredda, come quella di un serpente, che ricopre il corpo femminile. La questione si complica, dunque, e anche quest’opera di Zazzera sfugge a quella categorizzazione troppo rigida, troppo esplicita per arrivare infine a considerazioni prettamente formali, che in questo caso – e genericamente quando si parla d’arte – significano tutt’altro che “non sostanziali” come avviene invece nel linguaggio comune.
Del paradosso percettivo di una forma morbida e apparentemente momentanea, cristallizzata invece nella solidità del metallo abbiamo già parlato, ora si tratta però di parlarne a livello cosciente, anzi, consapevole: il livello della conoscenza e della comparazione. Comparazione perché, ad esempio, nel caso di molte delle opere di Zazzera – ricordiamo come esemplare il vasto ciclo delle “Armoniche” – le categorie della scultura potrebbero leggermente mutare, da quelle tradizionali cui siamo abituati. Il senso di “forma chiusa” e “forma aperta” diventano nell’analisi della sua opera “forma arrotolata” e “forma distesa”, come se da un momento all’altro potessero cambiare di senso, e trasformarsi nel loro opposto: nel suo caso, infatti, non è assolutamente pensabile che le opere non possano essere manipolate e mutate, anche se non avverrà mai. In altre parole, i suoi lavori suggeriscono la possibilità di un mutamento di forma, che quello che era chiuso venga “srotolato”, cioè diventi “aperto”, e la forma muti con una mobilità impensabile per la scultura, e poco importa che un eventuale fortunato possessore la appenda al muro per sempre, così come accade che chi ha un bel tappeto in casa non sia un nomade abituato ad arrotolarlo ogni giorno per spostarsi di qualche miglio altrove. Resta la possibilità che questo avvenga, e tanto basta all’arte e allo svelamento del processo mentale, o dell’intuizione, o della pulsione che vi sta dietro e che ora, grazie a quella forma combinata con quella materia – in fondo, nella scultura, si tratta sempre di questo… – ci viene posto davanti. Una specie di nomadismo possibile, vagheggiato persino con un poco di nostalgia che non si sa da dove venga, ma reso solido e sicuro dall’ineluttabile e irrinunciabile (per noi) appartenenza alla tradizione dell’arte occidentale.

 

PDF