“Antonella Zazzera. Arte e ricerca” di Mauro Salvi, 2001
Se le arti visive hanno come fine quello di materializzare l’idea che l’artista ha e se per di più l’artista è giovanissimo, questo, cioè il periodo che è ponte fra i due secoli, è fra i più oscuri dopo il “De revolutionibus orbium coelestium” di Nicolò Copernico.
Cosa sta accadendo a noi, indigeni non più, ma concittadini di un’Europa che per alcuni rimarrà una terra iperborea? Finita la borsa nera, spente le sirene dei bombardamenti, ripiegate le bandiere dei gloriosi reggimenti, finiti questi ricordi, finito il malessere che stimolava “la necessità” ad agire, ecco arrivare il benessere.
Ma come il mito della Fenice che rinasce dalle ceneri, eccoci nuovamente trasformati, con il non piccolo particolare che non è lo spirito ovvero l’idea creatrice a rinascere ma la materia, quindi, va da Sé, il benessere tecnologico. Visto che tecnologia e vendita del prodotto sono consequenziali ecco la pubblicità, l’arrivismo indifferente, oceano invalicabile che si pone fra creazione e crescita della società.
Noi artisti potremmo recitare questa favola “c’era una volta … l’idea unita ad un altissimo sviluppo tecnologico, cioè la tecnica che la materializzava, in modo unico irripetibile, lirico, poetico. Poi successe che rimase solo l’idea con una quasi inesistente tecnica e l’idea, così nuda e fragile, non si sapeva realizzare”.
Ecco la premessa, che il lettore deve apprendere e che devo ribadire vista la moda di mettere tutto nel dubbio. Sì, necessita la premessa sull’artista che ricerca, ricerca dentro se stesso, non fra i corridoi degli studi televisivi, non nei saloni di moda, non fra gonne e pantaloni compiacenti.
Per finire di collocare nel suo spazio storico Antonella Zazzera, diremo che non è nata né a Sodoma né a Gomorra ma in luogo silvestre, né è dovuta sottostare ai riti di iniziazione urbana, ma le sue guide sono il silenzio, la natura, gli astri, la brace domestica, la voce degli aedi agresti, il libero arbitrio. Così si è formata, astorica nel contenuto, storica nella forma espressiva. Astorica perché si occupa dell’essere nel suo divenire, della presa di coscienza di essere al di fuori di ogni fede: di essere in sé, problemi normali per un vero artista; temi che hanno segnato i grandi canoni umani ed armonici della storia, vivamente tracciati da Policleto, Giotto, Masaccio, Leonardo, Caravaggio, Medardo Rosso, Vedova. Storica per inevitabile appartenenza al suo tempo. Il “senso di esprimersi”, per Zazzera, si unisce al contemporaneo, ad un razionalismo espressionista che per moda si sovrappone a visioni d’oltralpe, mentre in lei si alimenta di ritmi dinamici, echi di un ordine tangente alla sua terra: l’Orcagna, Paolo Uccello, Balla, Gherardo Dottori.
Non vi è in lei lo smarrimento nel labirintico groviglio di ideali artistici internazionali, tendenze o mode insustanziate destinate ad un inevitabile crisi concettuale poiché prive di quel “sale” e quindi stagni immobili per decenni.
Zazzera è forte di chi ha spaziato la zolla arata; ciò che l’artista esprime, la ricerca fra chi genera e chi è generato, unità e dualità fra matrice e frammento generato dalla matrice, viene “dal sempre è”; è l’essere nella sua propria manifestazione materiale e filosofica il suo centro di ricerca. Questo lo esprime continuando la tradizione artistica italiana dove la dualità espressiva di linea e colore si è alternata nei vari stili per racchiudere forme, spazi, superfici. E’ la linea che racchiude la forma, o è il colore che definisce la forma, così fra Botticelli e Giovanni Bellini si arriva al divisionismo e da lì al Futurismo.
Questa è la vera scuola italiana, questa è la via che Zazzera persegue per materializzare le proprie intuizioni. Matrici, così l’artista chiama le sue forme che incarnano Gea “la grande madre generante”. Matrice è una superficie catramosa adagiata su una tela “Sudario” intonacata con un leggero strato di stucco gessoso; questa area è percorsa da molteplici tracce simili a quelle che si riscontrano sulle superfici di meteoriti, di vecchi cetacei e sulla crosta della terra; solchi che contengono il seme di chi li ha generati. Oggetti oscuri alla nostra immaginazione, persi negli abissi dello spazio e degli oceani, dissolti nella loro azione incisiva. Alle matrici è stata concessa la grazia, il dono per cui guardandole si è istantaneamente collocati in una visione concernente i misteri dell’assoluto, il senso di apparente, ricolma pienezza e soddisfazione di avere afferrato per un baleno la visione dell’incomprensibile: non è piacere trascurabile.
Guardare le matrici ed i frammenti non significa sentirsi autorizzati ad irrigidire la struttura dell’opera in teorie lineari tendenti a disegnare tracce che hanno come limite quello di delineare forme; bensì guardare le matrici e i frammenti significa fondere linee, superfici, spazi esistenziali, concetti rinnovati, dopo le esperienze futuriste, in una nuova visione “dell’essere individuale” che si manifesta con la materia pittorica.
Antonella Zazzera, l’artista, recupera quei frammenti di stucco catramoso che si separano casualmente e naturalmente dalle Matrici. Frammenti, ovvero superfici per lo più frazionate dalle fenditure praticate sull’area della Matrice stessa. Forme irregolari contenenti l’essenza di chi li ha generati, questi frammenti vivono di una loro vita propria, appaiono nella loro assoluta fragilità come un’unica comparsa di un qualcosa che è e non sarà più, racchiudono nella loro tragicità l’essenza laica della vita senza effondere un alcunché minimo oracolo. Anche la loro consistenza tecnica, fatta con un materiale friabilissimo come il gesso, elemento costituito dalla sedimentazione di infinite moltitudini di conchiglie, lascia ampio spazio alle proprie riflessioni.
La traccia e la curva sono gli elementi virali fecondati, che muovono, dinamizzano i lavori di Zazzera. Infatti, attraverso queste azioni, le sue opere acquistano un senso artistico, il suo essere moderna sta, consiste, nel perseguire ciò che è di più tangibile, evidente concetto esistenziale: è la forma in quanto tale, cioè il suo perimetro, a formare se stessa o è la sua massa plastica a farla esistere attraverso il colore?
Dilemma vano che una volta va ed una torna come l’onda, ma caratterizza un ideale artistico, un popolo che ricerca la propria identità sull’essere in sé o essere in tutto. Questa espressione Zazzera l’ottiene con tracce, luci e ombre a forti contrasti, anticipa la fusione delle due entità in una nuova, canonica, dove l’essere è unico in sé ed unico in tutto; dove il movente non è nella ricerca estetica dello spazio come lascito delle esperienze futuriste, ma è ricerca storica nuova che si riallaccia a quel Balla che però è ancora incline a valorizzare spazi estetici nutriti di cognizioni tecnico scientifiche, comunque ancora densi d’insofferenze sociali e sperimentali.
Zazzera fonde la traccia con la massa plastica non per fini estetici sociali ma bensì esistenziali, dando all’opera una nuova emanazione, rendendo l’essere futuro, quindi nuovo, unico in sé, non più corrotto da fedi o tendenze. Ed è in questo concetto che dobbiamo leggere la scelta che l’artista fa dell’uso del colore. Scelta sintetica che sottolinea drasticamente il principio della dualità. Il colore partecipa trasportando in sé ciclicamente tutto il peso della materia stessa. Zazzera va oltre il colore come chi disegna va oltre la traccia. Qui l’artista, con il colore, fissa il tutto, come la notte fissa il cosmo nella volta stellata. Questo è fondamentale per ribadire che Zazzera usa un colore“ interiore “ non uno stereotipo internazionale di miti espressionisti. Questo lei, l’artista, lo chiama
“l’uomo armonico”.
Osservando le opere di Zazzera non bisogna inutilmente soffermarsi su questo o quell’artista ma guardare il confine tra luce e ombra, tra luccichio e buiore, individuare quella flessuosità che è presente ma non si definisce e che lei ricerca, tentando di fondere linea, colore e superficie in una realtà individuale che è: l’essere.