“Antonella Zazzera: tra forma ed eccentric abstraction” di Fabrizio D’Amico, 2008
In un allestimento risalente agli anni Ottanta, Senza titolo, riproposto nel catalogo dell’antologica allestita nel ’98 a Villa delle Rose a Bologna, Marisa Merz ha posto sulla sinistra di chi guarda, a terra, accanto ad una scatola di vecchio cartone, alcune bobine di filo di rame, ai piedi di una parete dove si dispongono, formando una sorta di scacchiera, innumerevoli, piccoli quadrati fatti dallo stesso filo di rame, intrecciato (l’ideazione di un simile lavoro risalendo almeno all’allestimento di analoghi quadrati, quasi volanti e appuntati su pareti di vario colore alla galleria Bernier di Atene nel ’79). In un altro allestimento del 1981 (Un attimo di rame), accanto a una sedia e ad un cono di paraffina sta, sospeso a poca distanza dal suolo, un gomitolo di filo di rame sommariamente intrecciato, così che molta aria vi passi attraverso. Sovente, prima e dopo quelle date e in altri modi, Marisa Merz ha utilizzato il filo di rame (cui peraltro aveva dedicato un testo anche Mario Merz nel ’78, Da dove viene il rame, “Domus”, n. 579), tanto che si devono considerare questo materiale e l’idea di tessitura come luoghi privilegiati del suo lavoro. Così che è difficile, oggi, non pensare al precedente della Merz e al suo pluriennale lavoro sul rame e sul suo intreccio quando lo sguardo si posa, nello studio di Antonella Zazzera, sulle bobine di filo di rame, di tante e tante tonalità e spessori diversi, che giacciono un po’ dovunque, innumerevoli, tutte ordinatamente impilate. O sui suoi lavori più recenti, nati tramando fittamente quel filo.
Ma il rapporto, pur alla prima apparenza così testuale, è in realtà illusorio. Quelle della Merz sono trame leggere, incostanti (quasi indifferenti, d’altronde, a qualificare, nominandolo, il materiale che impiega; in ciò, ancora una volta, pigliando Marisa Merz distanza dalla coinè che, a Torino, la stringe d’assedio a partire dalla metà degli anni Sessanta: e senza, infine, che quel clima abbia ragione delle sue diverse intenzioni). Ripetizioni nello spazio d’ambiente degli stessi viluppi, del raggomitolarsi e flettersi su sé stesso, interrogante e senza progetto, del segno che abita le sue carte, le sue pitture. E méta del suo intrecciare è, ancora, andare incontro a una forma che infine imprevedibilmente accade, circondata di attesa e mistero, e della quale, in bilico fra figura surrealtà ed astrazione, non si intenderanno compiutamente i confini: nata com’è quell’immagine in “una grotta, una caverna primordiale, un ventre generatore di forme, di sensazioni, di emozioni visive” – ha scritto Pier Giovanni Castagnoli. Quelle della Zazzera essendo, mi pare, tutt’altre.
L’origine, che ormai data a qualche tempo fa, delle sculture che l’artista battezza dal 2004 con l’unico titolo di Armonico, facendo seguire al titolo una numerazione romana, è, al suo avvio, tutta interna a motivazioni formali: ad un’analisi,concentrata sull’unico materiale impiegato, condotta sulle determinazioni che un secolare asse paradigmatico assegna alle arti plastiche. Così che di “luci, ombre, colori”, secondo l’elenco che stende l’artista stessa, sono prima di tutto intessuti questi suoi manufatti. E della materializzazione, in essi, di quel morfema plastico che la Zazzera ha individuato – fin dall’avvio del suo lavoro, dato in ambito pittorico – come elemento formale basilare e per lei irrinunciabile, e che ha nominato il “segnotraccia”.
Questo elemento-cardine della ricerca si esplica dapprima nella serie delle Madri Matrici, dipinti realizzati su una garza leggera, e destinati a restar liberi sulla parete, senza la costrizione del telaio. La tela è ricoperta di un denso strato di colle, catrame, gesso e pigmenti, ma la lenta spartizione dello spazio di superficie in minimi tasselli geometrizzanti sottrae quelle opere ad una temperie neoinformale, e ne evidenzia invece la crescita dovuta all’iterazione metodica del segno, alla ricerca di un ritmo dell’immagine che sembra quasi mettersi in traccia di sotterranee rispondenze con il ritmo esistenziale del loro autore.
Bianchi, innocenti, nasceranno appena dopo, dalle Madri Matrici, i Frammenti: piccoli calchi in gesso che portano impressi i segni che costruiscono la ‘figura’ delle tele, ma che – nella purezza appunto del loro biancore – dichiarano più apertamente la loro estraneità da una condizione di coinvolta, sofferta emotività. I Frammenti sono probabilmente, al di là del fascino delle tele delle Madri Matrici che li hanno occasionati, i primi lavori definitivamente maturi della Zazzera: che in essi riversa alcune caratteristiche del suo fare che profondamente le appartengono, e che torneranno negli anni ulteriori. La qualità, prima di tutto, di scoperta rabdomantica di una verità segreta e appartata che sgorga sotterraneamente in corso d’opera, e che appartiene insieme alla natura del lavoro stesso e al ritmo creativo del faber: ed è questa identità cui probabilmente allude Antonella sottoscrivendo con la frase “l’opera d’arte è l’artista” alcuni suoi pensieri risalenti al tempo di passaggio fra le due serie dei Frammenti e dell’Armonico.
L’idea di impronta impressa sul lavoro da una parte del proprio essere, traccia della propria esistenza o, meglio, del proprio corpo; e la contingenza che questo innesco mentale si dia nella giovane artista tudertina attraverso il medium del gesso, lasciano aperta l’ipotesi che una possibile sollecitazione le sia venuta dal lavoro di Paolo Icaro. Se a tale forte suggestione Antonella Zazzera ha infine scelto di sottrarsi (o se, almeno, essa appare accantonata nell’attuale lavoro sul filo di rame), è grazie all’ingresso nella sua prassi di un altro e tutto diverso medium, quello fotografico. Attraverso di esso – da leggersi come un transito propedeutico alla sua definitiva maturazione; e non come una tappa autosufficiente e in sé conclusa – la Zazzera ha scoperto, e attirato al cuore della sua ricerca, l’egida della luce.
Attraverso lo scatto fotografico, in particolare attraverso la fotografia di lastre di rame sulle quali ha tracciato “graffi, incisioni e solcature”, Zazzera si pone in traccia di quel “corpo misterioso e segreto che si svela solo in parte” che costituisce una parte dell’oggetto della sua ricerca. Altra volta, lei stessa ha parlato poi di “ventre materno”, dicendo del luogo donde sgorgano le sue immagini (d’altronde, un “ventre generatore di forme”, ricordiamo, è, nelle citate parole di Castagnoli, il ‘luogo’ dell’immaginario di Marisa Merz): e attestando così di volersi stringere a quel modo della creatività, soprattutto femminile, che, sgorgato in ambito tardo-surrealista, è transitato oltreoceano con la Bourgeois, prosegue con Eva Hesse e si dipana in molti rivoli europei di quell’anti-form teorizzata originariamente proprio da uno dei padri del minimalismo, Robert Morris.
Se da una parte la pratica fotografica, posta a tramite della nascita della nuova ‘figura’ che governerà la scultura, attira dunque la Zazzera nell’ambito di quella che Lucy Lippard chiamò eccentric abstraction, e di taluni suoi sviluppi, un’altra e per molti versi opposta vocazione occorre leggere nel modo attuale della sua scultura. Ed è quella d’una astrazione che affonda nell’idea di forma, e di forma chiusa, le sue lunghe radici. Alcune parole, su tutte, ricorrono più volte nei brevi pensieri della Zazzera sul suo lavoro: segno, luce, e curva. E la frequenza con la quale esse ritornano basta a svelare come le determinazioni formali che esse indicano le siano state essenziali nel suo lungo, e per lungo tempo appartato, laboratorio.
Il segno inteso, a muovere dal passaggio aurorale delle Madri Matrici, come ricerca di verità: d’un proprio segno che possa raccogliere nella sua natura, nel suo venire al mondo, la confessione e l’impronta non scambiabile di chi l’ha impresso; al modo dunque in cui quel segno ha inteso, prima di altri, Guido Strazza. La luce come transito, emersione, lenta e inesorabile, attraverso una maglia stretta, fino all’epifania della superficie: come era nel Dorazio al crinale fra anni Cinquanta e Sessanta, da Ghika e il fuoco ai grandi dipinti tissulari. E la curva, in cui si flettono e s’abbandonano tutte le ‘figure’ attuali della scultura della Zazzera, stremate a terra o arrampicate sulla parete: opponendo concavo e convesso, in alternanza sapiente di slancio e d’arresto, mentre la pelle della scultura, il suo rame intrecciato, accoglie le vibrazioni e i riverberi della luce: come avviene, da molti decenni, nell’alluminio, nel ferro, e proprio nella lastra di rame di Carlo Lorenzetti.
In un allestimento risalente agli anni Ottanta, Senza titolo, riproposto nel catalogo dell’antologica allestita nel ’98 a Villa delle Rose a Bologna, Marisa Merz ha posto sulla sinistra di chi guarda, a terra, accanto ad una scatola di vecchio cartone, alcune bobine di filo di rame, ai piedi di una parete dove si dispongono, formando una sorta di scacchiera, innumerevoli, piccoli quadrati fatti dallo stesso filo di rame, intrecciato (l’ideazione di un simile lavoro risalendo almeno all’allestimento di analoghi quadrati, quasi volanti e appuntati su pareti di vario colore alla galleria Bernier di Atene nel ’79). In un altro allestimento del 1981 (Un attimo di rame), accanto a una sedia e ad un cono di paraffina sta, sospeso a poca distanza dal suolo, un gomitolo di filo di rame sommariamente intrecciato, così che molta aria vi passi attraverso. Sovente, prima e dopo quelle date e in altri modi, Marisa Merz ha utilizzato il filo di rame (cui peraltro aveva dedicato un testo anche Mario Merz nel ’78, Da dove viene il rame, “Domus”, n. 579), tanto che si devono considerare questo materiale e l’idea di tessitura come luoghi privilegiati del suo lavoro. Così che è difficile, oggi, non pensare al precedente della Merz e al suo pluriennale lavoro sul rame e sul suo intreccio quando lo sguardo si posa, nello studio di Antonella Zazzera, sulle bobine di filo di rame, di tante e tante tonalità e spessori diversi, che giacciono un po’ dovunque, innumerevoli, tutte ordinatamente impilate. O sui suoi lavori più recenti, nati tramando fittamente quel filo.
Ma il rapporto, pur alla prima apparenza così testuale, è in realtà illusorio. Quelle della Merz sono trame leggere, incostanti (quasi indifferenti, d’altronde, a qualificare, nominandolo, il materiale che impiega; in ciò, ancora una volta, pigliando Marisa Merz distanza dalla coinè che, a Torino, la stringe d’assedio a partire dalla metà degli anni Sessanta: e senza, infine, che quel clima abbia ragione delle sue diverse intenzioni). Ripetizioni nello spazio d’ambiente degli stessi viluppi, del raggomitolarsi e flettersi su sé stesso, interrogante e senza progetto, del segno che abita le sue carte, le sue pitture. E méta del suo intrecciare è, ancora, andare incontro a una forma che infine imprevedibilmente accade, circondata di attesa e mistero, e della quale, in bilico fra figura surrealtà ed astrazione, non si intenderanno compiutamente i confini: nata com’è quell’immagine in “una grotta, una caverna primordiale, un ventre generatore di forme, di sensazioni, di emozioni visive” – ha scritto Pier Giovanni Castagnoli. Quelle della Zazzera essendo, mi pare, tutt’altre.
L’origine, che ormai data a qualche tempo fa, delle sculture che l’artista battezza dal 2004 con l’unico titolo di Armonico, facendo seguire al titolo una numerazione romana, è, al suo avvio, tutta interna a motivazioni formali: ad un’analisi,concentrata sull’unico materiale impiegato, condotta sulle determinazioni che un secolare asse paradigmatico assegna alle arti plastiche. Così che di “luci, ombre, colori”, secondo l’elenco che stende l’artista stessa, sono prima di tutto intessuti questi suoi manufatti. E della materializzazione, in essi, di quel morfema plastico che la Zazzera ha individuato – fin dall’avvio del suo lavoro, dato in ambito pittorico – come elemento formale basilare e per lei irrinunciabile, e che ha nominato il “segnotraccia”.
Questo elemento-cardine della ricerca si esplica dapprima nella serie delle Madri Matrici, dipinti realizzati su una garza leggera, e destinati a restar liberi sulla parete, senza la costrizione del telaio. La tela è ricoperta di un denso strato di colle, catrame, gesso e pigmenti, ma la lenta spartizione dello spazio di superficie in minimi tasselli geometrizzanti sottrae quelle opere ad una temperie neoinformale, e ne evidenzia invece la crescita dovuta all’iterazione metodica del segno, alla ricerca di un ritmo dell’immagine che sembra quasi mettersi in traccia di sotterranee rispondenze con il ritmo esistenziale del loro autore.
Bianchi, innocenti, nasceranno appena dopo, dalle Madri Matrici, i Frammenti: piccoli calchi in gesso che portano impressi i segni che costruiscono la ‘figura’ delle tele, ma che – nella purezza appunto del loro biancore – dichiarano più apertamente la loro estraneità da una condizione di coinvolta, sofferta emotività. I Frammenti sono probabilmente, al di là del fascino delle tele delle Madri Matrici che li hanno occasionati, i primi lavori definitivamente maturi della Zazzera: che in essi riversa alcune caratteristiche del suo fare che profondamente le appartengono, e che torneranno negli anni ulteriori. La qualità, prima di tutto, di scoperta rabdomantica di una verità segreta e appartata che sgorga sotterraneamente in corso d’opera, e che appartiene insieme alla natura del lavoro stesso e al ritmo creativo del faber: ed è questa identità cui probabilmente allude Antonella sottoscrivendo con la frase “l’opera d’arte è l’artista” alcuni suoi pensieri risalenti al tempo di passaggio fra le due serie dei Frammenti e dell’Armonico.
L’idea di impronta impressa sul lavoro da una parte del proprio essere, traccia della propria esistenza o, meglio, del proprio corpo; e la contingenza che questo innesco mentale si dia nella giovane artista tudertina attraverso il medium del gesso, lasciano aperta l’ipotesi che una possibile sollecitazione le sia venuta dal lavoro di Paolo Icaro. Se a tale forte suggestione Antonella Zazzera ha infine scelto di sottrarsi (o se, almeno, essa appare accantonata nell’attuale lavoro sul filo di rame), è grazie all’ingresso nella sua prassi di un altro e tutto diverso medium, quello fotografico. Attraverso di esso – da leggersi come un transito propedeutico alla sua definitiva maturazione; e non come una tappa autosufficiente e in sé conclusa – la Zazzera ha scoperto, e attirato al cuore della sua ricerca, l’egida della luce.
Attraverso lo scatto fotografico, in particolare attraverso la fotografia di lastre di rame sulle quali ha tracciato “graffi, incisioni e solcature”, Zazzera si pone in traccia di quel “corpo misterioso e segreto che si svela solo in parte” che costituisce una parte dell’oggetto della sua ricerca. Altra volta, lei stessa ha parlato poi di “ventre materno”, dicendo del luogo donde sgorgano le sue immagini (d’altronde, un “ventre generatore di forme”, ricordiamo, è, nelle citate parole di Castagnoli, il ‘luogo’ dell’immaginario di Marisa Merz): e attestando così di volersi stringere a quel modo della creatività, soprattutto femminile, che, sgorgato in ambito tardo-surrealista, è transitato oltreoceano con la Bourgeois, prosegue con Eva Hesse e si dipana in molti rivoli europei di quell’anti-form teorizzata originariamente proprio da uno dei padri del minimalismo, Robert Morris.
Se da una parte la pratica fotografica, posta a tramite della nascita della nuova ‘figura’ che governerà la scultura, attira dunque la Zazzera nell’ambito di quella che Lucy Lippard chiamò eccentric abstraction, e di taluni suoi sviluppi, un’altra e per molti versi opposta vocazione occorre leggere nel modo attuale della sua scultura. Ed è quella d’una astrazione che affonda nell’idea di forma, e di forma chiusa, le sue lunghe radici. Alcune parole, su tutte, ricorrono più volte nei brevi pensieri della Zazzera sul suo lavoro: segno, luce, e curva. E la frequenza con la quale esse ritornano basta a svelare come le determinazioni formali che esse indicano le siano state essenziali nel suo lungo, e per lungo tempo appartato, laboratorio.
Il segno inteso, a muovere dal passaggio aurorale delle Madri Matrici, come ricerca di verità: d’un proprio segno che possa raccogliere nella sua natura, nel suo venire al mondo, la confessione e l’impronta non scambiabile di chi l’ha impresso; al modo dunque in cui quel segno ha inteso, prima di altri, Guido Strazza. La luce come transito, emersione, lenta e inesorabile, attraverso una maglia stretta, fino all’epifania della superficie: come era nel Dorazio al crinale fra anni Cinquanta e Sessanta, da Ghika e il fuoco ai grandi dipinti tissulari. E la curva, in cui si flettono e s’abbandonano tutte le ‘figure’ attuali della scultura della Zazzera, stremate a terra o arrampicate sulla parete: opponendo concavo e convesso, in alternanza sapiente di slancio e d’arresto, mentre la pelle della scultura, il suo rame intrecciato, accoglie le vibrazioni e i riverberi della luce: come avviene, da molti decenni, nell’alluminio, nel ferro, e proprio nella lastra di rame di Carlo Lorenzetti.