“Le mani e il pensiero di Antonella Zazzera” di Fabrizio D’Amico, 2010

La luce è per Antonella Zazzera “l’evento fondamentale all’interno dell’opera”. La luce, prima d’ogni altra cosa (prima del colore, che pure adesso, con orgoglio, dice d’aver ottenuto vario e molteplice, attraverso il timbro diverso delle bobine di rame che impiega; più che la materia, che da diafana, trasparente che era, le è cresciuta ora nelle mani fino a configurarsi sovente in corpo, in volume), costituisce il fulcro e il cuore della sua immagine. Quella luce ha una lunga storia, distesa all’indietro in un passato remoto dalla densa memoria visiva della Zazzera, che ha perfetta consapevolezza del suo asse paradigmatico orgogliosamente disperso nei secoli: “quando lavoro ho in mente la pittura divisionista, le grandi tele di Segantini e di Previati, la pittura futurista, gli studi sulla luce di Balla e quelli di Dorazio”, dice; e confessa il fascino provato di fronte a Caravaggio. Così che attesta, infine: “effettivamente penso alla pittura mentre faccio scultura”. È una luce piena e salda, invasa dal sole, talvolta; talora essa è tremula e filante; talora si nasconde, quasi, nell’ombra di una piega, donde – diresti – è pronta a scattare verso lo sguardo che l’attende.
Lavora con il pensiero, lavora sulla memoria di modi trascorsi; ma lavora, Antonella Zazzera, anche con le mani; e, attraverso quel lavoro, cercando un’emozione. Ed è questa partenza della sua immagine che per prima, credo, debba sedurre. Prima ancora di darsi una lingua, la Zazzera ha scelto di mantenere una fedeltà: alla componente fabrile del suo operare, che rimane in lei passaggio cruciale, transito non scambiabile: basta vederla, o raffigurarsela, china sui suoi telai a ‘tessere’ il filo di rame, a cercare – pazientemente, e quasi ciecamente – con il grande ago di metallo il pertugio ove il filo passerà un’altra volta, per stringere un nuovo nodo. È questa scelta fabrile che ne accosta l’opera ad un’astrazione prossima ai dettami che potremmo dir ‘classici’ della scultura; che, discesa alla fine degli anni Cinquanta dai Ferri di Burri, prosegue intatta sino, almeno, a Carlo Lorenzetti. È una scelta, dunque, per certo verso inattuale nel panorama assai omologato della scultura d’oggi e delle sue tutte diverse velleità di racconto e d’iperbole narrativa; una scelta, all’opposto, che ragiona tuttora sui canoni della forma e di quei caratteri – nel caso della Zazzera, principalmente l’opposizione, generatrice di moto, di concavo e convesso, da lei nominata sovente la “curva” che flette sinuosamente il suo materiale, una volta ch’esso sia stato liberato dal rigido supporto del telaio, e prenda a scivolare per l’aria, ad avventurasi nell’ambiente – che la costituiscono e la qualificano.
Ad un fianco di questo ragionare sulla ‘forma’ e sulla sua intangibilità, altro però si verifica nella sua scultura: altro, e profondamente diverso, ma senza che l’aporia concettuale che deriva da questa diversità incida infine sulla omogeneità con cui si manifesta l’immagine. Accanto all’egida della forma, trapela allora nell’opera della Zazzera l’intenzione di dar figura a quello che lei stessa ha chiamato un “corpo misterioso e segreto che si svela solo in parte”, un corpo avvolto di sogno e di lontananza, come uscito – dice ancora – da un “ventre materno”. Attesta in tal modo, Antonella, di volersi stringere a quel modo della creatività, soprattutto femminile, che, sgorgato in ambito tardo-surrealista, è transitato oltreoceano con la Bourgeois, prosegue con Eva Hesse e si dipana, nuovamente in Europa, in molti rivoli di quell’anti-form teorizzata originariamente proprio da uno dei padri del minimalismo, Robert Morris, ivi comprese alcune movenze dell’arte povera.
Non ha mai guardato, è vero, alla scultura che aveva alle spalle tentandone una mimesi: così che sarebbe fuorviante pensare ai feltri di Morris come alla ‘figura’ che ha ispirato gli Armonici della Zazzera; è piuttosto la prossimità alla vita, il cortocircuito che tenta con l’esistenza, ad avvicinarla alle poetiche antirigoriste della eccentric abstraction. Una tentazione in tal senso, è vero, coinvolge anche le grandi, compatte superfici degli Armonici maggiori: almeno quando, pensando ad essi e al loro stare all’aperto, distesi su un prato o arrampicati sulla verticalità di un tronco d’albero, confessa d’attendere con stupore che un filo d’erba s’apra una sua via attraverso le maglie strette del rame, e venga così a portare dentro la tetragona perfezione della forma della scultura un fiato della natura circostante. Ma credo che meglio si verifichi, quella seduzione antiformale e dunque quel sogno di ingombrare di vita la sua immagine, nella serie, altrettanto importante seppur data per solito in misure più contenute, dei lavori che diremmo ispirati all’idea di un nido, di un grembo: lavori che, raccolti in particolare nell’ultima sala della sua mostra odierna, hanno storia altrettanto lunga nell’immaginario della Zazzera, e ne svelano un lato significativo dell’intenzione creativa.
A ben guardare, quei ‘nidi’ (che vengono egualmente battezzati Armonici, e che s’alternano nel tempo a quelli maggiori, inframettendosi ad essi con naturalezza, come discendessero da un unico pensiero ideativo) si pongono da subito accanto agli altri, ed anzi forse ne sono cronologicamente all’origine. Nei ‘nidi’, però, la trama è distesa, allentata, dispersa, quanto negli Armonici essa è densa e compatta: e il movimento che se ne genera è introflesso, raccolto, quasi volesse adombrare un pensiero ripiegato su sé stesso. Lo spazio che generano diviene allora un luogo segreto, un bozzolo da stringere piano, una piccola caverna in cui si ricoverano i tesori di un segno che, isolato, sembra incline piuttosto a catturare filamenti dispersi di luce che a convogliarla, come avviene altrove nel lavoro della Zazzera, in ampi sommovimenti, in folate e direttrici nettamente individuate. Soffi, anse, anfratti nascono da quel segnare parco e quasi reticente: che vola, licinianamente, nel vuoto (con la stessa sapiente e disinvolta levità che si riconosce nei risonanti Bozzetti recenti, carte appena scritte dal carbone), errante, eretico, erotico.

 

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La luce è per Antonella Zazzera “l’evento fondamentale all’interno dell’opera”. La luce, prima d’ogni altra cosa (prima del colore, che pure adesso, con orgoglio, dice d’aver ottenuto vario e molteplice, attraverso il timbro diverso delle bobine di rame che impiega; più che la materia, che da diafana, trasparente che era, le è cresciuta ora nelle mani fino a configurarsi sovente in corpo, in volume), costituisce il fulcro e il cuore della sua immagine. Quella luce ha una lunga storia, distesa all’indietro in un passato remoto dalla densa memoria visiva della Zazzera, che ha perfetta consapevolezza del suo asse paradigmatico orgogliosamente disperso nei secoli: “quando lavoro ho in mente la pittura divisionista, le grandi tele di Segantini e di Previati, la pittura futurista, gli studi sulla luce di Balla e quelli di Dorazio”, dice; e confessa il fascino provato di fronte a Caravaggio. Così che attesta, infine: “effettivamente penso alla pittura mentre faccio scultura”. È una luce piena e salda, invasa dal sole, talvolta; talora essa è tremula e filante; talora si nasconde, quasi, nell’ombra di una piega, donde – diresti – è pronta a scattare verso lo sguardo che l’attende.
Lavora con il pensiero, lavora sulla memoria di modi trascorsi; ma lavora, Antonella Zazzera, anche con le mani; e, attraverso quel lavoro, cercando un’emozione. Ed è questa partenza della sua immagine che per prima, credo, debba sedurre. Prima ancora di darsi una lingua, la Zazzera ha scelto di mantenere una fedeltà: alla componente fabrile del suo operare, che rimane in lei passaggio cruciale, transito non scambiabile: basta vederla, o raffigurarsela, china sui suoi telai a ‘tessere’ il filo di rame, a cercare – pazientemente, e quasi ciecamente – con il grande ago di metallo il pertugio ove il filo passerà un’altra volta, per stringere un nuovo nodo. È questa scelta fabrile che ne accosta l’opera ad un’astrazione prossima ai dettami che potremmo dir ‘classici’ della scultura; che, discesa alla fine degli anni Cinquanta dai Ferri di Burri, prosegue intatta sino, almeno, a Carlo Lorenzetti. È una scelta, dunque, per certo verso inattuale nel panorama assai omologato della scultura d’oggi e delle sue tutte diverse velleità di racconto e d’iperbole narrativa; una scelta, all’opposto, che ragiona tuttora sui canoni della forma e di quei caratteri – nel caso della Zazzera, principalmente l’opposizione, generatrice di moto, di concavo e convesso, da lei nominata sovente la “curva” che flette sinuosamente il suo materiale, una volta ch’esso sia stato liberato dal rigido supporto del telaio, e prenda a scivolare per l’aria, ad avventurasi nell’ambiente – che la costituiscono e la qualificano.
Ad un fianco di questo ragionare sulla ‘forma’ e sulla sua intangibilità, altro però si verifica nella sua scultura: altro, e profondamente diverso, ma senza che l’aporia concettuale che deriva da questa diversità incida infine sulla omogeneità con cui si manifesta l’immagine. Accanto all’egida della forma, trapela allora nell’opera della Zazzera l’intenzione di dar figura a quello che lei stessa ha chiamato un “corpo misterioso e segreto che si svela solo in parte”, un corpo avvolto di sogno e di lontananza, come uscito – dice ancora – da un “ventre materno”. Attesta in tal modo, Antonella, di volersi stringere a quel modo della creatività, soprattutto femminile, che, sgorgato in ambito tardo-surrealista, è transitato oltreoceano con la Bourgeois, prosegue con Eva Hesse e si dipana, nuovamente in Europa, in molti rivoli di quell’anti-form teorizzata originariamente proprio da uno dei padri del minimalismo, Robert Morris, ivi comprese alcune movenze dell’arte povera.
Non ha mai guardato, è vero, alla scultura che aveva alle spalle tentandone una mimesi: così che sarebbe fuorviante pensare ai feltri di Morris come alla ‘figura’ che ha ispirato gli Armonici della Zazzera; è piuttosto la prossimità alla vita, il cortocircuito che tenta con l’esistenza, ad avvicinarla alle poetiche antirigoriste della eccentric abstraction. Una tentazione in tal senso, è vero, coinvolge anche le grandi, compatte superfici degli Armonici maggiori: almeno quando, pensando ad essi e al loro stare all’aperto, distesi su un prato o arrampicati sulla verticalità di un tronco d’albero, confessa d’attendere con stupore che un filo d’erba s’apra una sua via attraverso le maglie strette del rame, e venga così a portare dentro la tetragona perfezione della forma della scultura un fiato della natura circostante. Ma credo che meglio si verifichi, quella seduzione antiformale e dunque quel sogno di ingombrare di vita la sua immagine, nella serie, altrettanto importante seppur data per solito in misure più contenute, dei lavori che diremmo ispirati all’idea di un nido, di un grembo: lavori che, raccolti in particolare nell’ultima sala della sua mostra odierna, hanno storia altrettanto lunga nell’immaginario della Zazzera, e ne svelano un lato significativo dell’intenzione creativa.
A ben guardare, quei ‘nidi’ (che vengono egualmente battezzati Armonici, e che s’alternano nel tempo a quelli maggiori, inframettendosi ad essi con naturalezza, come discendessero da un unico pensiero ideativo) si pongono da subito accanto agli altri, ed anzi forse ne sono cronologicamente all’origine. Nei ‘nidi’, però, la trama è distesa, allentata, dispersa, quanto negli Armonici essa è densa e compatta: e il movimento che se ne genera è introflesso, raccolto, quasi volesse adombrare un pensiero ripiegato su sé stesso. Lo spazio che generano diviene allora un luogo segreto, un bozzolo da stringere piano, una piccola caverna in cui si ricoverano i tesori di un segno che, isolato, sembra incline piuttosto a catturare filamenti dispersi di luce che a convogliarla, come avviene altrove nel lavoro della Zazzera, in ampi sommovimenti, in folate e direttrici nettamente individuate. Soffi, anse, anfratti nascono da quel segnare parco e quasi reticente: che vola, licinianamente, nel vuoto (con la stessa sapiente e disinvolta levità che si riconosce nei risonanti Bozzetti recenti, carte appena scritte dal carbone), errante, eretico, erotico.

 

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