“Lo spazio e il tempo di Antonella Zazzera” di Giuseppe Appella, 2012

Lei cerca davanti a sé
ciò che ha lasciato alle spalle.

Giorgio Caproni

 

Due anni fa, in occasione di una personale che ai consueti Armonici accostava le Carte Scultura, Antonella Zazzera ha dichiarato di tendere a liberarsi dalla schiavitù della forma e della tecnica, ovvero dei due elementi che coniugano i fattori con i quali si manifesta l’essenza delle cose: lo spazio e il tempo.
Simultaneamente, ha sottolineato la necessità di avere il controllo totale dei suoi gesti, di quelli passati, di quelli che compie e di quelli che compirà. Ovvero, quasi volesse riscrivere il manifesto del costruttivismo e sillabasse lentamente i nomi di Gabo e di Pevsner che un certo fascino l’avevano suscitato anche nel giovane Dorazio: la linea non va esaminata nelle sue qualità rappresentative ma accolta unicamente come direzione dell’energia e della cadenza proprie degli oggetti (vedi gli Armonici); al volume, conquistato lentamente dalla tessitura regolare dell’Armonico ma inidoneo a rendere la dimensione dello spazio, occorre riconsegnare la sua enigmatica profondità e trasparenza; il ritmo cinetico e dinamico, essenziale per trasferire la nozione di tempo reale, sostituisce, anche per la inflessione data al segno-traccia-luce, il ritmo statico messo continuamente in vibrazione dal volume potenziale creatosi durante gli allestimenti (vedi la recente sala costruita nell’ambito del “Periplo della scultura italiana contemporanea 3”, Matera 2012, dove le opere conquistano una inedita monumentalità, proprio perché lo spazio, materia duttile, diventa parte integrante dell’opera); il rilievo, tessuto in fili di rame intrecciati e sovrapposti in articolati rapporti di piani e di linee tesi ad amplificare i riflessi luminosi, sollecita l’intento architettonico delle carte-scultura che nella costruzione puramente geometrica accetta la presenza di materiali quali la cellulosa e l’organizzazione di forme semplificate non aliene da trasposizioni pittoriche e da progetti scenografici.
Appare chiaro, dunque, come nel giro di pochi anni, per raggiungere una integrazione ancora più distesa dello spazio, Antonella Zazzera abbia cercato di approfondire il suo stile avvicendando tessiture parallele a tessiture trasversali di puri elementi astratti dalle impercettibili modulazioni, piani angolosi a superfici curve, forme compatte e rigorose a forme aperte e semplici, ognuna carica della propria luce e della propria ombra, non ammettendo altri colori se non quelli originari dei materiali adoperati, altra sostanza se non quella innervata dalle densità delle tensioni, altra poetica se non quella del vuoto.

 

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Lei cerca davanti a sé
ciò che ha lasciato alle spalle.

Giorgio Caproni

 

Due anni fa, in occasione di una personale che ai consueti Armonici accostava le Carte Scultura, Antonella Zazzera ha dichiarato di tendere a liberarsi dalla schiavitù della forma e della tecnica, ovvero dei due elementi che coniugano i fattori con i quali si manifesta l’essenza delle cose: lo spazio e il tempo.
Simultaneamente, ha sottolineato la necessità di avere il controllo totale dei suoi gesti, di quelli passati, di quelli che compie e di quelli che compirà. Ovvero, quasi volesse riscrivere il manifesto del costruttivismo e sillabasse lentamente i nomi di Gabo e di Pevsner che un certo fascino l’avevano suscitato anche nel giovane Dorazio: la linea non va esaminata nelle sue qualità rappresentative ma accolta unicamente come direzione dell’energia e della cadenza proprie degli oggetti (vedi gli Armonici); al volume, conquistato lentamente dalla tessitura regolare dell’Armonico ma inidoneo a rendere la dimensione dello spazio, occorre riconsegnare la sua enigmatica profondità e trasparenza; il ritmo cinetico e dinamico, essenziale per trasferire la nozione di tempo reale, sostituisce, anche per la inflessione data al segno-traccia-luce, il ritmo statico messo continuamente in vibrazione dal volume potenziale creatosi durante gli allestimenti (vedi la recente sala costruita nell’ambito del “Periplo della scultura italiana contemporanea 3”, Matera 2012, dove le opere conquistano una inedita monumentalità, proprio perché lo spazio, materia duttile, diventa parte integrante dell’opera); il rilievo, tessuto in fili di rame intrecciati e sovrapposti in articolati rapporti di piani e di linee tesi ad amplificare i riflessi luminosi, sollecita l’intento architettonico delle carte-scultura che nella costruzione puramente geometrica accetta la presenza di materiali quali la cellulosa e l’organizzazione di forme semplificate non aliene da trasposizioni pittoriche e da progetti scenografici.
Appare chiaro, dunque, come nel giro di pochi anni, per raggiungere una integrazione ancora più distesa dello spazio, Antonella Zazzera abbia cercato di approfondire il suo stile avvicendando tessiture parallele a tessiture trasversali di puri elementi astratti dalle impercettibili modulazioni, piani angolosi a superfici curve, forme compatte e rigorose a forme aperte e semplici, ognuna carica della propria luce e della propria ombra, non ammettendo altri colori se non quelli originari dei materiali adoperati, altra sostanza se non quella innervata dalle densità delle tensioni, altra poetica se non quella del vuoto.

 

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