“Fiat lux” di Massimo Mattioli, 2008

Battaglie. Linee di fuga tracciate dalle bandiere, o dalle lance. Rivolte immobili verso l’alto, o spezzate sul terreno, in una sequenza ritmica. Sfogli mentalmente l’album fotografico che segna il percorso creativo di Antonella Zazzera, e inevitabilmente parte l’esercizio retorico – e magari vizioso – di cercare delle referenze, di collocarlo in una linea che ha attraversato la storia dell’arte. E i primi pensieri vanno a scene di battaglie, a quella Battaglia di San Romano di Paolo Uccello, con l’affollarsi furioso di cavalli, armature e lance. O alla grande scenografia lirica offerta dalla Battaglia di Isso, di Albrecht Altdorfer, ancora linee aggrovigliate, alabarde, vessilli. Battaglie. Ti fermi a riflettere, e ti accorgi che quell’esercizio non è poi così vizioso. Ti accorgi che tutto quel percorso è una continua battaglia, una lotta per penetrare i misteri della materia, della natura, una lotta per riuscire a dare evidenza ad una ricca ed incessante elaborazione interiore. Una battaglia che fin dagli esordi si esprime con un segno che non è mai narrativo, ma subito sintetico, dinamico, semmai evocativo, a volte quasi violento. Fin dai banchi dell’Accademia: “Ricordo le prime lezioni di pittura e il lavoro con la modella, osservando quel corpo in movimento ho iniziato a ritrarne le dinamiche, le vibrazioni…”. Una battaglia che vuole affrancare i valori puri e assoluti dell’arte, tramandati da tutti i grandi maestri dell’arte antica, moderna e contemporanea, dalle contaminazioni e concettualismi che continuano ad affiancarli fino ed accantonarli. Per recuperare una linea della quale lei vuole essere continuatrice e che percorre idealmente tutta la storia, segnata da grandi personaggi e movimenti che hanno lasciato un segno senza però abbandonarla. Da Caravaggio, con la scoperta della luce come energia creatrice, al Divisionismo, dove il colore implode nella luce, al Futurismo, che la luce mutua in energia, fino all’Informale, con l’ingresso dell’uomo, della sua presenza anche organica, in queste dinamiche avanzate.
Segno. Fin dagli inizi la ricerca della Zazzera è punteggiata da un attento corredo teorico. Quaderni e fogli fittissimi di note, grafie convulse e sofferte, che diventano essi stessi una sua opera. Appunti più volte rivisti e corretti, chiosati e rimeditati, ma dai quali emerge che il citato percorso creativo – nelle sue linee generali – era già lucidamente delineato, chiaro nell’approccio dell’artista già dagli esordi. Facilmente riconducibile, soprattutto oggi, alla luce dei primi già tuttavia così pregnanti sviluppi, ad un’espressione coniata da lei, ed alla quale lei affida(va) tanti significati: il Segnotraccia. “Espressione massima dell’individuo artista, dove avviene la fusione dell’io con la materia artistica”, ne diceva. Segno+traccia: ovvero il precoce vaticinio di un percorso già annunciato, con il “segno” a compendiare gli iniziali esercizi grafici, poi trasportati nelle prove pittoriche, e la “traccia” ad anticipare sviluppi plastici, o comunque il coinvolgimento con la materia. Due mezzi, due modalità distinte ma complementari, ma che il neologismo sottolinea debbano interagire in un atteggiamento più avanzato e complesso. Che trova una prima timida applicazione già nei “Rilievi”, blocchi di legno a primo impatto di radice minimal, sui quali però si sovrappongono più strati di gesso. Che poi l’artista trafigge con i suoi marcati e quasi frenetici segni, in alcune zone giungendo a mettere a nudo gli strati sottostanti, marcando la “scoperta” con notazioni cromatiche, sempre sul bianco e nero. Paradigma di una costante tensione a conoscere il nascosto, ad indagare il possibile, spingendosi – per citare Wilhelm Worringer – oltre «la superficie visibile delle cose».
Traccia. Ma è nelle “Madri Matrici” che il panorama dell’artista si delinea nelle sue complesse articolazioni. Se gli esiti del segno erano stati prevalentemente grafici, la centralità che ora assume la traccia immette nuove temperie, in una dimensione plastica. Ma soprattutto diventa centrale il ruolo dell’uomo, dell’artista, che nella visione etica, virtuosamente idealista di Antonella Zazzera, si immedesima totalmente con l’opera d’arte, che lei indugia a considerare eminentemente ”manufatto artistico”, il fine ultimo dell’artista, l’oggetto delle sue attenzioni ed anche il motivo dei suoi dubbi, scevro da influenze sociali o concettuali. L’uomo diviene oggetto e soggetto di queste affascinanti opere, vere chiavi di volta dell’esperienza creativa dell’artista. Il mezzo sono delle garze, sulle quali si distendono diversi strati di catrame e gesso, che si legano variamente fra di essi e con la base, sostanziando un altro processo spesso ricorrente nelle parole della Zazzera, quello della sedimentazione. Che assume, oltre a una lettura “fisica”, di saldatura cioè delle diverse componenti, anche una lettura metaforica, come proiezione del vissuto umano, sedimentazione di esperienze e di sensibilità profonde. Questa composita superficie l’artista la sfregia con decisi solchi, secondo una griglia di segni intersecati che ripercorre complessi schemi legati al suo corpo, alla proiezione di sé nella sua azione, e che richiama le linee-forza futuriste. L’uomo si fa soggetto dell’opera, la cui costruzione assume i contorni quasi teatrali di un rituale liberatorio, uno happening. L’uomo ora detta i tempi di attesa fra uno strato e l’altro, con la materia che varia nella compenetrazione fra strati diversi e quindi anche nei successivi cromatismi. La superficie viene poi letteralmente battuta, picchiata, e gli strati più duri si fratturano decretando alcune aree che conserveranno la loro misteriosa integrità. In altre invece il demiurgo avrà penetrato le più recondite esperienze sedimentate, che ora proporranno la loro silenziosa narrazione.
Luce. La linea della ricerca è tracciata, ma l’ansia conoscitiva dell’artista non si placa. L’uomo è terreno e per definizione imperfetto, e la via per una conoscenza superiore passa per la sua totale identificazione con la natura, sulla strada per la definizione di quell’”uomo armonico”, che la Zazzera individua come abitatore perfetto dell’universo. Lo strumento di una estrema analisi della forma primigenia nella natura, paradigma di una ricerca interiore nell’essenza dell’essere umano, diviene ora l’obbiettivo fotografico. L’uomo si apparta, ora è la natura che opera, e le qualità intrinseche della materia. Nell’indagine sempre più profonda che mette a nudo la sostanza, la libera della personalità, dell’esperienza, giungendo all’assoluto, irrompe la luce, è al combinato colore-linea-luce che si affida la ricerca di un Ordine Superiore. Il mezzo diventa ora la vetronite, materiale composto da rame e polvere di vetro. Su quello si libera il gesto creatore dell’artista, solchi, graffi, incisioni, impercettibili ad occhio nudo. Sono questi i nuovi segno-traccia, che colpiti dalla luce e catturati dalla pellicola fotografica, rendono forme misteriose, inorganiche, ma altamente simboliche e cariche di energie cosmiche. È la luce il custode del mistero che animerà le sculture in fili di rame, naturale evoluzione del lavoro fotografico, quasi un compendio formale degli esiti pregressi. “Per comprendere le sculture della Zazzera – ha scritto Mauro Salvi – occorre percorrere a ritroso la storia dell’arte e chiedersi perché Fidia alla fine del V sec. a.C. riproduce nei panneggi delle sculture del Partenone questa vibrazione luminosa. Perché Fidia, Cavallini, Giovanni Bellini, Bernini, Medardo Rosso, Segantini, Boccioni, Dorazio, Zazzera hanno dato valore alla vibrazione luminosa marcandola con una traccia che la esalta? La linea, che è espressione universale di un raggio di luce, nelle sculture di Zazzera si moltiplica infinitamente, perde la sua identità geometrica e diviene luce stessa conducendoci ad osservare le sue variazioni cromatiche, nella gamma tonale dei massimi chiari e dei massimi scuri; svolgendosi, ispessendosi variando costantemente orientamento genera spazio, spazio che si riempie della propria essenza e potrebbe farlo nella sua infinità se non ci fosse il limite dell’umana possibilità”. Le linee-forza che percorrono le macro-fotografie, vengono proposte nelle sculture nella loro evidenza plastica e formale, documenti dell’armonia cosmica che precede la socialità. La luce, che infonde la vita.

 

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Battaglie. Linee di fuga tracciate dalle bandiere, o dalle lance. Rivolte immobili verso l’alto, o spezzate sul terreno, in una sequenza ritmica. Sfogli mentalmente l’album fotografico che segna il percorso creativo di Antonella Zazzera, e inevitabilmente parte l’esercizio retorico – e magari vizioso – di cercare delle referenze, di collocarlo in una linea che ha attraversato la storia dell’arte. E i primi pensieri vanno a scene di battaglie, a quella Battaglia di San Romano di Paolo Uccello, con l’affollarsi furioso di cavalli, armature e lance. O alla grande scenografia lirica offerta dalla Battaglia di Isso, di Albrecht Altdorfer, ancora linee aggrovigliate, alabarde, vessilli. Battaglie. Ti fermi a riflettere, e ti accorgi che quell’esercizio non è poi così vizioso. Ti accorgi che tutto quel percorso è una continua battaglia, una lotta per penetrare i misteri della materia, della natura, una lotta per riuscire a dare evidenza ad una ricca ed incessante elaborazione interiore. Una battaglia che fin dagli esordi si esprime con un segno che non è mai narrativo, ma subito sintetico, dinamico, semmai evocativo, a volte quasi violento. Fin dai banchi dell’Accademia: “Ricordo le prime lezioni di pittura e il lavoro con la modella, osservando quel corpo in movimento ho iniziato a ritrarne le dinamiche, le vibrazioni…”. Una battaglia che vuole affrancare i valori puri e assoluti dell’arte, tramandati da tutti i grandi maestri dell’arte antica, moderna e contemporanea, dalle contaminazioni e concettualismi che continuano ad affiancarli fino ed accantonarli. Per recuperare una linea della quale lei vuole essere continuatrice e che percorre idealmente tutta la storia, segnata da grandi personaggi e movimenti che hanno lasciato un segno senza però abbandonarla. Da Caravaggio, con la scoperta della luce come energia creatrice, al Divisionismo, dove il colore implode nella luce, al Futurismo, che la luce mutua in energia, fino all’Informale, con l’ingresso dell’uomo, della sua presenza anche organica, in queste dinamiche avanzate.
Segno. Fin dagli inizi la ricerca della Zazzera è punteggiata da un attento corredo teorico. Quaderni e fogli fittissimi di note, grafie convulse e sofferte, che diventano essi stessi una sua opera. Appunti più volte rivisti e corretti, chiosati e rimeditati, ma dai quali emerge che il citato percorso creativo – nelle sue linee generali – era già lucidamente delineato, chiaro nell’approccio dell’artista già dagli esordi. Facilmente riconducibile, soprattutto oggi, alla luce dei primi già tuttavia così pregnanti sviluppi, ad un’espressione coniata da lei, ed alla quale lei affida(va) tanti significati: il Segnotraccia. “Espressione massima dell’individuo artista, dove avviene la fusione dell’io con la materia artistica”, ne diceva. Segno+traccia: ovvero il precoce vaticinio di un percorso già annunciato, con il “segno” a compendiare gli iniziali esercizi grafici, poi trasportati nelle prove pittoriche, e la “traccia” ad anticipare sviluppi plastici, o comunque il coinvolgimento con la materia. Due mezzi, due modalità distinte ma complementari, ma che il neologismo sottolinea debbano interagire in un atteggiamento più avanzato e complesso. Che trova una prima timida applicazione già nei “Rilievi”, blocchi di legno a primo impatto di radice minimal, sui quali però si sovrappongono più strati di gesso. Che poi l’artista trafigge con i suoi marcati e quasi frenetici segni, in alcune zone giungendo a mettere a nudo gli strati sottostanti, marcando la “scoperta” con notazioni cromatiche, sempre sul bianco e nero. Paradigma di una costante tensione a conoscere il nascosto, ad indagare il possibile, spingendosi – per citare Wilhelm Worringer – oltre «la superficie visibile delle cose».
Traccia. Ma è nelle “Madri Matrici” che il panorama dell’artista si delinea nelle sue complesse articolazioni. Se gli esiti del segno erano stati prevalentemente grafici, la centralità che ora assume la traccia immette nuove temperie, in una dimensione plastica. Ma soprattutto diventa centrale il ruolo dell’uomo, dell’artista, che nella visione etica, virtuosamente idealista di Antonella Zazzera, si immedesima totalmente con l’opera d’arte, che lei indugia a considerare eminentemente ”manufatto artistico”, il fine ultimo dell’artista, l’oggetto delle sue attenzioni ed anche il motivo dei suoi dubbi, scevro da influenze sociali o concettuali. L’uomo diviene oggetto e soggetto di queste affascinanti opere, vere chiavi di volta dell’esperienza creativa dell’artista. Il mezzo sono delle garze, sulle quali si distendono diversi strati di catrame e gesso, che si legano variamente fra di essi e con la base, sostanziando un altro processo spesso ricorrente nelle parole della Zazzera, quello della sedimentazione. Che assume, oltre a una lettura “fisica”, di saldatura cioè delle diverse componenti, anche una lettura metaforica, come proiezione del vissuto umano, sedimentazione di esperienze e di sensibilità profonde. Questa composita superficie l’artista la sfregia con decisi solchi, secondo una griglia di segni intersecati che ripercorre complessi schemi legati al suo corpo, alla proiezione di sé nella sua azione, e che richiama le linee-forza futuriste. L’uomo si fa soggetto dell’opera, la cui costruzione assume i contorni quasi teatrali di un rituale liberatorio, uno happening. L’uomo ora detta i tempi di attesa fra uno strato e l’altro, con la materia che varia nella compenetrazione fra strati diversi e quindi anche nei successivi cromatismi. La superficie viene poi letteralmente battuta, picchiata, e gli strati più duri si fratturano decretando alcune aree che conserveranno la loro misteriosa integrità. In altre invece il demiurgo avrà penetrato le più recondite esperienze sedimentate, che ora proporranno la loro silenziosa narrazione.
Luce. La linea della ricerca è tracciata, ma l’ansia conoscitiva dell’artista non si placa. L’uomo è terreno e per definizione imperfetto, e la via per una conoscenza superiore passa per la sua totale identificazione con la natura, sulla strada per la definizione di quell’”uomo armonico”, che la Zazzera individua come abitatore perfetto dell’universo. Lo strumento di una estrema analisi della forma primigenia nella natura, paradigma di una ricerca interiore nell’essenza dell’essere umano, diviene ora l’obbiettivo fotografico. L’uomo si apparta, ora è la natura che opera, e le qualità intrinseche della materia. Nell’indagine sempre più profonda che mette a nudo la sostanza, la libera della personalità, dell’esperienza, giungendo all’assoluto, irrompe la luce, è al combinato colore-linea-luce che si affida la ricerca di un Ordine Superiore. Il mezzo diventa ora la vetronite, materiale composto da rame e polvere di vetro. Su quello si libera il gesto creatore dell’artista, solchi, graffi, incisioni, impercettibili ad occhio nudo. Sono questi i nuovi segno-traccia, che colpiti dalla luce e catturati dalla pellicola fotografica, rendono forme misteriose, inorganiche, ma altamente simboliche e cariche di energie cosmiche. È la luce il custode del mistero che animerà le sculture in fili di rame, naturale evoluzione del lavoro fotografico, quasi un compendio formale degli esiti pregressi. “Per comprendere le sculture della Zazzera – ha scritto Mauro Salvi – occorre percorrere a ritroso la storia dell’arte e chiedersi perché Fidia alla fine del V sec. a.C. riproduce nei panneggi delle sculture del Partenone questa vibrazione luminosa. Perché Fidia, Cavallini, Giovanni Bellini, Bernini, Medardo Rosso, Segantini, Boccioni, Dorazio, Zazzera hanno dato valore alla vibrazione luminosa marcandola con una traccia che la esalta? La linea, che è espressione universale di un raggio di luce, nelle sculture di Zazzera si moltiplica infinitamente, perde la sua identità geometrica e diviene luce stessa conducendoci ad osservare le sue variazioni cromatiche, nella gamma tonale dei massimi chiari e dei massimi scuri; svolgendosi, ispessendosi variando costantemente orientamento genera spazio, spazio che si riempie della propria essenza e potrebbe farlo nella sua infinità se non ci fosse il limite dell’umana possibilità”. Le linee-forza che percorrono le macro-fotografie, vengono proposte nelle sculture nella loro evidenza plastica e formale, documenti dell’armonia cosmica che precede la socialità. La luce, che infonde la vita.

 

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